Marco e Marc che bello sarebbe stato vedervi lottare in pista

Sono passati due anni da quella maledetta domenica mattina in cui Marco Simoncelli, lottando fino alla fine per tenere in pista la sua Honda, ci ha lasciato. Ma nessuno può dimenticare il suo sorriso e il suo talento. L’unico rimpianto resta non averlo qui a battagliare con Marc Marquez e Jorge Lorenzo, perché ci sarebbe stato… di sicuro.

Quando vedi Marc Marquez fare “il pazzo”, non risparmiandosi entrate e spallate d’altri tempi, il paragone è un lampo che ti trafigge il cuore e corre a al nostro Marco. Il Sic che buttava sempre il cuore oltre l’ostacolo, e che per aver buttato fuori Pedrosa e Lorenzo, anche in 250, era odiato dagli spagnoli; che lo temevano come il futuro che avanzava, con un sorriso sornione e la stazza da caterpillar, capace di spazzare via le certezze dei due esili spagnoli, che stanno dominando in lungo e in largo. Aveva l’handicap del peso, alto e robusto com’era, ma non si è mai arreso allo strapotere degli altri.

E’ per questo che ci manca, perché lottava, s’incazzava, ma non ha mai smesso di sorridere fino all’ultimo. E siamo certi che con il numero 93 di Marquez e il 58 di Marco in pista ne avremmo viste di scintille, di carenate, di battaglie epiche, ma senza storie e con grossi sorrisi alla fine… Certo, anche con qualche gestaccio. Marco e Marc non si sono incrociati se non nel paddock probabilmente, ma sarebbero stati una bella bega l’uno per l’altro. Oltre che per Valentino Rossi che con il Sic probabilmente si sarebbe giocato spesso il podio.

Sono già andati via due anni, ma quella mattina, quel dolore è ancora vivo in ogni appassionato che ha visto sorridere Marco e quella mattina era sveglio per vedere la sua gara. E’ vivo ogni qualvolta un pilota cade e nella mente si fa spazio nuovamente quella paura, il terrore che ci ha fatto rivivere purtroppo il povero Antonelli, il terrore che gli amanti delle moto conoscono bene, ma sanno mettere da parte una volta allacciato il casco e saliti in sella.

L’affetto e le emozioni suscitate da Sic, dal suo numero 58, dalla sua famiglia, sono la dimostrazione che essere “veri” è un valore che buca lo schermo, arrivando fin nel profondo di tante tante persone. Marco ci ha lasciato questo messaggio, che in una società spesso cieca e capace di premiare chi inganna, deve restare come una bussola per i giovani e per tutti noi: sorridenti sempre, autentici altrettanto sempre. Ciao Marco e grazie per le emozioni che ci hai dato, fino alla fine, fino a quando il tuo talento è diventato straniero alla terra.

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Milan: Tra infortuni, modulo e mercato qualcosa non torna

Una vittoria, una sconfitta e un pareggio. E’ questo il magro bottino del Milan in questo avvio di campionato: certo, siamo ancora ancora alle battute iniziali, per cui “sparare” sentenze adesso sarebbe superficiale oltre che sbagliato. D’altronde l’epilogo della scorsa stagione è lì a fare da monito. L’ inizio zoppicante dei rossoneri, però, è sintomo di qualcosa che non va; sono tre i fattori che a nostro giudizio vanno analizzati con particolare attenzione: infortuni, modulo e mercato.

Allarme infortuni. Se c’è un elemento che accomuna le quattro stagioni di Allegri al Milan, è quello legato al capitolo infortuni. Nella sua esperienza rossonera, infatti, il tecnico toscano non è mai riuscito a trovare una soluzione soddisfacente a questo handicap. Anche quest’anno il problema si è ripresentato puntuale come un orologio svizzero: sono già 10 gli infortunati in casa Milan, praticamente un’intera formazione. Sul banco degli imputati è finito chiaramente Allegri, che dalla sua ha la scusante di aver dovuto preparare in fretta e furia la squadra in vista del preliminare di Champions. Sta di fatto che l’infermeria rossonera è stracolma: out Abate, De Sciglio, Bonera e Silvestre, il reparto difensivo è ridotto all’osso; fuori anche Montolivo, Poli, kakà, Niang, El Shaarawy e il lungodegente Pazzini. Gestire una situazione del genere, in un periodo in cui con l’inizio della Champions il Milan giocherà ogni tre giorni, per Allegri sarà estremamente difficile.

Modulo. Ma abbandonare il 4-3-3 era strettamente necessario? Il ritorno al 4-3-1-2 è davvero la soluzione a tutti i problemi? Sono questi gli interrogativi che si stanno ponendo i tifosi rossoneri dopo aver assistito all’orrenda partita di Torino. Contro i granata si è vista una squadra spaesata, senza voglia, compassata e che ha dimostrato di non aver ancora assimilato il nuovo schema tanto caro ad Allegri. Inoltre, il modulo col trequartista – secondo il tecnico toscano – avrebbe dovuto portare maggiore equilibrio, ma i numeri dicono che le reti incassate dal Milan nelle prime tre giornate di campionato sono già 5. Troppe per una squadra che punta alle zone alte della classifica. Inoltre, con il 4-3-1-2, giocatori come Niang ed El Shaarawy, che prediligono partire larghi e che l’anno scorso sono stati grandi protagonisti, rischiano di essere sacrificati e di guardare giocare i loro compagni dalla panchina. La sensazione è bisogna rivedere qualcosa.

Mercato. Tra i tifosi, ha fatto molto discutere la decisione della società rossonera di cedere Boateng per riacquistare un giocatore (Kakà) che in molti considerano sul viale del tramonto. Sicuramente il ritorno del brasiliano ha scaldato il cuore di molti nostalgici, ma si sa che alla fine ciò che contano sono i risultati. Ed è per questo che il numero 22 rossonero dovrà trovare in fretta la forma migliore (a proposito, l’infortunio all’adduttore complicherà le cose), altrimenti San Siro non gli risparmierà i suoi fischi. Ciò che comunque ha lasciato tutti perplessi, è stata la decisione della dirigenza di non rinforzare la difesa, punto debole della rosa. Checché ne dica Galliani, il reparto arretrato del Milan è piuttosto ballerino e non dà l’impressione di essere affidabile. Basta dare un’occhiata alla dinamica dei gol incassati dal Milan in queste prime uscite stagionali. Probabilmente, un difensore centrale di un certo spessore avrebbe fatto comodo ad Allegri, che adesso dovrà fare di necessità virtù.

La buona notizia, per il Milan e i suoi tifosi, è che la stagione è appena iniziata, per cui è possibile rimediare a quanto visto fin’ora. E’ chiaro però che serve il sacrificio di tutti.

 

Juventus: come l’anno scorso a Milano e a Roma, ma con un Tevez in più…

Ritmi bassi, un po’ di stanchezza, le nazionali e la Champions di mezzo. Un copione già visto lo scorso anno, in due occasioni in particolare: le trasferte a Milano contro il Milan e all’Olimpico contro la Roma. Allora la Juve tornò a casa con 0 punti e tanti dubbi sulla possibilità di reggere il doppio impegno.

La Juventus vista ieri pomeriggio contro l’Inter è sembrata per larghi tratti simile a quella vista nelle due partite citate in precedenza. Squadra stanca e spezzata in due in alcune fasi del gioco, ritmi blandi e l’assenza della solita cattiveria. Ci è mancato poco di rimetterci di nuovo le penne. Invece, la compagine di Antonio Conte è tornata a casa con un punto e rischiando persino di vincere nel finale di gara.

Ci sono un paio di differenze tra la Juve di quest’anno e quella della passata stagione. Potremmo analizzare il sistema di gioco sempre più collaudato o la definitiva affermazione di Vidal come campione assoluto. Oppure parlare di una squadra ormai matura a tutti gli effetti, in grado di gestire al meglio anche le situazioni difficili, come può essere andare in svantaggio a San Siro contro l’Inter. Ma la principale differenza rispetto alla passata stagione è la presenza in campo di un leader tecnico ed emotivo. Stiamo parlando ovviamente di Carlos Tevez.

L’Apache è stato il fiore all’occhiello della campagna acquisti bianconera. La sua capacità di integrarsi immediatamente negli schemi e nella mentalità della Juve di Conte ha sorpreso anche i più ottimisti. Nella partita di ieri non si è limitato ad impensierire la difesa nerazzurra con la sua velocità e la sua capacità tecnica. Al contrario il suo apporto è stato ancora più importante in fase di non possesso. Per tutta la durata dell’incontro gli abbiamo visto rincorrere gli avversari a destra e a sinistra, senza palesare la benchè minima stanchezza sul finire del match. La reazione bianconera dopo il gol di Icardi è stata guidata da lui. Ha addirittura sfiorato la rete del sorpasso poco dopo il pareggio di Vidal ed ha fornito uno splendido assist, proprio per il cileno, qualche minuto più tardi. Solo una bella parata di Handanovic ha negato ai bianconeri la gioia del 2-1.

La sua mentalità vincente sta giovando a tutta la squadra. Tevez è quel campione in grado di cambiare l’inerzia di un incontro in qualsiasi momento. È evidente come la Juve non possa sempre andare a mille all’ora ed essere brillante, specie quando di mezzo ci sono gli impegni delle nazionali e la Champions League. Partite giocate non al meglio capiteranno ancora di qui alla fine del campionato. Ma a differenza della passata stagione, i bianconeri potranno anche permettersi di giocare male e vincere lo stesso. Tevez dà questa opportunità. Lo ha fatto spesso al Manchester City e sembra avviato ad interpretare lo stesso ruolo con la maglia della Juventus. Ecco perchè il copione di ieri sera lo abbiamo già visto, il finale, però, non è lo stesso. Come a Milano e a Roma, ma con un Tevez in più.

Roma: fermate il Mondo, Osvaldo e Sabatini, voglio scendere

In principio fu Borini, poi Marquinhos, ora tocca ad Osvaldo al Southampton, poi a Lamela o Pjanic al Tottenham; la Roma di Sabatini e degli americani assomiglia sempre più a un supermarket, anziché ad un top club.

Vi prego fermate il mondo voglio scendere davanti a questo calciomercato giallorosso. Non mi scandalizza la Juventus a Trigoria, né i tifosi contro Osvaldo, ma l’atteggiamento di Sabatini nella parte del giustiziere a mo’ di Walker Texas Ranger e di Pallotta nella parte dell’avaro riccone. La Roma a parole è un grande club, nei fatti deve ripianare il bilancio e privarsi dei campioni che fanno un top club europeo tale. Se poi non c’è la scusa del bilancio, beh ci sono le questioni personali, i duelli da farwest. Borini venduto perché voleva essere tutto giallorosso, cosa intollerabile per Sabatini e via l’attaccante più adatto per il modulo di Zeman; in compenso si comprano Tachtsidis, Piris, Dodò e altri optional per la panchina dell’Olimpico, che probabilmente mai avremmo voluto vedere con la nostra maglia.

Si apre il calciomercato e via Marquinhos, 35 milioni offerta irrifiutabile; come se la difesa dello scorso anno fosse stata già così forte, che anche senza il suo pezzo pregiato sarebbe  stata in grado di reggere il nuovo campionato… Agosto passa con TV e giornali, ancor più della maggioranza dei tifosi giallorossi, a sparare su Osvaldo e Lamela; sempre cedibili, sempre con le valige in mano. Rudi Garcia “tiene” con garbo l’italo-argentino, blinda Pjanic e fa prendere l’incognita Gervinho liberando di fatto Lamela per altri 35 milioni che dovrebbero arrivare dal Tottenham, in attesa dell’affare Bale.

Atteggiamento da grande squadra? Ma dove? Più che altro atteggiamento da deboli e influenzabili, da “vendicatori” incapaci di gestire situazioni e placare gli animi. Così tra poche ore Osvaldo sarà un giocatore del Southampton e la Roma resterà in avanti con Totti, nulla da eccepire; Destro in convalescenza e senza una data chiara per un rientro e un ritorno ai tempi di Siena; Lamela possibile partente per fare ulteriore cassa; Tallo e Caprari giovani e promettenti, ma incapaci di cambiare da soli una partita o dare un apporto di esperienza alla squadra; Gervinho che dopo il nulla londinese deve dimostrare effettivamente in Italia cosa può fare, con la piena fiducia di Rudi Garcia a coccolarlo e incoraggiarlo. Insomma, in attacco ci si affida al Capitano, unica certezza, e se si fa male, soffrisse la fatica o non trovasse la vena del goal degli ultimi campionati, vorrei sapere per Sabatini & co. chi farà i goal giallorossi.

Arriverà qualcuno. Certo… Bueno, l’uruguayano no, escluso. Qualcuno dice Matri o Quagliarella dopo il favore alla Juventus, nomi degni di sostituire Osvaldo? Capaci di segnare quanto Osvaldo? Ci sono alternative, Osvaldo era da cacciare dicono in tanti… Chi, dove, come?! Chi sono queste alternative che la Roma “senza spendere”, visto che si vende per ripianare il bilancio, può prendere? Hernandez dal Palermo, il pallino di Sabatini o qualche altra incognita sud americana?

Sabatini e il gruppo dirigente giallorosso, adesso che la chioccia Baldini è andata via, sembrano i dirigenti di una squadra di medio-bassa classifica: pensano prima a vendere e poi ai risultati; non sanno gestire le tensioni che in un gruppo di campioni e di puro sangue si possono creare. Chi ricorda Capello e Spalletti? Quante volte hanno preso di petto la piazza e calmato gli animi? Quante volte Montali con le sue doti umane ha calmato l’ambiente interno ed esterno?

Oggi a gestire le relazioni nella società e nello spogliatoio non c’è nessuno. E potrà anche partire Osvaldo, ma poi arriverà il momento di De Rossi, poi di Burdisso, poi di Pjanic e presto anche di Strootman: tutti campioni che in quanto tali non accettano di perdere e se lo sentono dicono quello che pensano, senza filtri e senza paura, come è giusto aspettarsi da un campione che ama la propria squadra e tiene alla propria carriera. E chi gestirà queste crisi? Rudi Garcia solo contro tutti? Probabile… Altrimenti, altro giro altra svendita, via altri campioni, in attesa di un miracolo o semplicemente di un dirigente capace di gestire un gruppo e le diverse anime che in esso albergano. Perché solo così poi si può parlare di squadra… non giocando con le figurine, nel regno delle sliding doors, dove non importa quanto sei forte; tanto hai sempre un cartellino addosso con un prezzo e basta un mugugno dell’ultimo curvaiolo depresso per farti fare la valigia.

Resto romanista perché la Roma non si discute, si ama… ma i dirigenti quelli forse è bene “discuterli” e non sempre difenderli, altrimenti non ci lamentiamo della politica italiana, se nella nostra squadra accettiamo sempre la linea del Vox populi, vox dei. I dirigenti sono qui, nelle società sportive o meno, proprio per tutelare l’azienda e le sue componenti e al contempo creare un terreno di relazioni e interazioni con l’esterno, tale da far crescere la società e lasciarne tranquilli i “dipendenti”.

Da Marco ad Andrea le emozioni restano sempre estreme

Quando compri una moto, qualsiasi, fosse anche un cinquantino, la compri più per far vedere di essere uno tosto più per il piacere di guidarla… Anche perché se ancora non hai mai guidato una moto non sai se ti piace o meno, ad essere realistici (no?!). Poi, solo dopo arriva la passione, quella che trovi innata e sprezzante nei piloti professionisti.

Quando sali sulla moto, che sia la prima o millesima volta non pensi di morire, non pensi che il casco e la tuta di pelle servono per proteggerti dalla morte, quella è solo la scusa per comprarli spendendoci un patrimonio, li hai comprati come piacciono a te: belli, brillanti, per essere unico, “fuori dalla norma”.

Proprio questo voler essere sempre un passo avanti, sempre oltre qualche soglia, segna la differenza tra un appassionato di moto e uno di un altro sport. C’è chi preferisce la moto alla fidanzata, chi invece si innamora sempre di quella nuova, chi la guida per goduria, chi la porta in pista per vincere sugli amici, chi invece ci corre davvero, che se ti capita davanti in pista ti accorgi di essere un impedito e lo guardi con ammirazione. Questo è il mondo normale di chi va in moto da 15 ai 90 anni le emozioni, le sensazioni si alternano, ma sono queste, anche quando vai ad andatura turistica e guardi il mare da una stradina tutta curve.

Poi ti svegli una mattina di ottobre ti metti davanti alla TV e vedi quel gigante buffo che cade e non si rialza. Marco ha lasciato una tacca sul cuore di tutti i motociclisti e la seconda tacca la lascia oggi Andrea. Già, nomi comuni i loro, come quelli di qualche amico che la vita l’ha persa sulla strada per eccesso di confidenza, oppure, per imperizia di qualcun altro. Dal 23 ottobre ad oggi, sinceramente, ho cambiato il modo di guardare le corse in TV: ho paura. Ogni eccesso, ogni caduta, ogni rischio mi riportano alla mente un frame di quella dannata domenica di Sepang.

Oggi sotto quella burrasca russa non si doveva correre, e non perché si parla dopo o si è dei cacasotto, semplicemente perché non c’erano le condizioni per correre, perché sotto quel diluvio Rossi, Marquez, Lorenzo e Pedrosa (che corrono fratturati) e lo stesso Crutchlow (che potremmo soprannominare Wolverine) trovandosi in testa avrebbero alzato la manina e ciao Gran Premio: un primo posto, una vittoria non valgono una vita.

Invece, la Superstock e la Superbike corrono e rischiano in una pista in cui la Moto GP non corre, perché non ci sono le condizioni di sicurezza tali da portare lì il motomondiale; eppure, la ART di Espargaro che è forse più lenta dell’Aprilia ufficiale di Giugliano corre in Moto GP: quindi, che differenza c’è? Perché la Superbike e la Superstock erano lì oggi? Perché nessuno ha voluto fermare lo show dopo quanto successo stamattina in Superbike?

Sponsor e soldi certo… Come se per andare forte ce ne fosse bisogno. Nessuno di noi che ha usato una moto “carenata” ha mai avuto sponsor e soldi per tirarle il collo oltre i 220 Km/h e vedere la strada prendere uno strano effetto stereoscopico. Forse dovrebbero ricordarlo piloti ed organizzatori, il piacere di guidare per guidare, per andare forte serve lo stomaco, il manico e un pizzico di follia, quindi, quando si va oltre il pizzico si chiude la porta del box e si aspettano condizioni migliori o si va a casa, tirando le orecchie a qualche pilota scriteriato che vorrebbe correre lo stesso, in preda alla sua sindrome da superman.

Non si fa correre un pilota incapace di capire se ha colpito un altro uomo o una moto a causa della nube d’acqua sollevata in rettilineo. Non si fanno correre uomini, trattati come fantocci, che non possono avere la capacità di sfilare un compagno che “rompe” davanti e si ferma; perché Andrea è morto per questo… non per Zanetti, è morto per aver colpito in pieno un altro pilota, che con la moto in panne è rimasto a centro pista e che lui non ha visto per la nuvola d’acqua e non ha potuto nemmeno provare a schivare o prepararsi all’impatto in qualche modo. La morte è arrivata lì.

Marco è morto tentando di tenere la sua moto in piedi, in qualche modo consapevolmente e voglioso fino alla fine di correre, di arrivare… Andrea, invece, non sa perché è morto, perché non ha potuto scegliere. Ecco, forse la sicurezza in pista sarebbe anche solo avere l’opportunità di scegliere, di avere un istante per decidere cosa fare della propria vita, di avere condizioni tali che consentano a commissari e piloti di vedere quanto succede in pista davanti a loro. Perché oggi, probabilmente, nemmeno i medici che hanno soccorso Andrea, che erano lì a pochi metri, hanno capito la dinamica dell’impatto e le conseguenti modalità d’intervento.

Il rischio morte non si può escludere dalla pista, come dalla nostra vita, ma almeno lì che ci sia un livello di attenzione più alto e di tolleranza zero per le follie. E se Mosca, Laguna Seca e altre piste per diversi motivi non sono “sicure”, che si resti a casa; che i piloti in prima persona dicano basta. Se io stasera guarderò la gara di Laguna Seca? Sì. Con Marco e Andrea nel cuore e col terrore che se qualcuno cade al cavatappi, con una rottura come quella dello scorso anno di Ben Spies, i rischi sono troppi e facilmente prevedibili, perché c’è un muretto, perché c’è un eccesso di rischio, che non so quanto sia tollerabile tutto questo in Mondo fatto di decimi, di perfezione, di cura maniacale.

Andrea Antonelli sul suo profilo Twitter poche ore fa, attimi prima di partire, aveva scritto: “osserverò attentamente e imparerò velocemente“. Ecco Andrea non ha potuto osservare attentamente e non ha potuto imparare, forse è ora che siano gli altri adesso a non perdere l’occasione, a guardare attentamente e imparare velocemente, che nel mondo in cui un bullone più stretto di un niente fa la differenza, è ancora più importante che gli aspetti importanti ed evidenti non vengano snobbati, come se si corresse col salame sugli occhi. Lo dobbiamo tutti a Marco, ad Andrea e a tutti quei ragazzi che su una moto hanno perso la vita; diamo un buon esempio, di cura ed attenzione che prevarichi anche la voglia e il coraggio del pilota, per imparare tutti, che spesso rinunciare ad un successo, a qualcosa d’importante, può essere giusto e farci sorridere insieme.

Ciao Andrea e dai un abbraccio a Marco da parte nostra…

 

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Baggio, il Divin codino: Talento che seduce anche all’Ariston

Alto momento di televisione nazional-popolare. Roberto Baggio, il “codino di Dio”, è ospite di Sanremo e ha la possibilità di rivolgersi a milioni di spettatori. Introdotto da Fazio con la proposizione “un ospite che ci piace” (trovare uno che sta antipatico al codardo Fabio è molto difficile) e da un video che ne riassume approssimativamente le gesta, Baggio ha avuto la possibilità di elevare il livello culturale del piccolo schermo. Il fantasista, amato da tifosi di squadre antagoniste, ha letto, dopo un breve excursus delle sue ultime attività professionali,  una lettera indirizzata ai giovani “così preziosi e insostituibili” e al tempo stesso ai suoi figli.

Impacciato, emozionato ed umile, ha parlato di passione, gioia, coraggio, successo, sacrificio. Sintetico e convincente, con una innocua dose di autobiografia, ha finalmente riportato in diretta nazionale grandi contenuti con poche parole. E’ il simbolo di ogni singola parola pronunciata, sia la sua vita privata che la sua vita pubblica, sia il suo essere giocatore ed uomo, lo attestano. Gettiamo uno squadro al suo corpo, alle sue cicatrici. Ascoltiamo il suo modo di interloquire, chiaro ed innocente. Così facendo rimpiangeremo quel calcio, quello sport che aveva il privilegio di essere un valore, un esempio di altruismo e divertimento. Il nostro mondo calcistico forse, non vuole le persone come Baggio e infatti le esclude, non permettendogli di lavorare. Il “maestro” Lippi, quando lo ha allenato all’Inter, lo relegava in panchina per antipatia; la nostra Federcalcio, indifferente alle sue proposte, l’ha costretto alle dimissioni.

“Da quando Baggio non gioca più”, io sospetto, “non è più Domenica”.

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Zeman: Juve, quanto ti ho amato non lo sai

Praga 1968. Il maligno impero sovietico invade la Cecoslovacchia, costringendo tante persone a fuggire. Tra queste c’è la faccia ruvida di un bambino che raggiungerà suo zio Cesto a Palermo, lasciandosi coinvolgere dalla passione per il calcio e laureandosi all’ISEF. Lo zio Cesto vive in Italia dal secondo dopoguerra. Ha allenato la Juventus del Presidente Boniperti e vinto due scudetti. Fu anche suo il merito di aver creduto nel valore del giovanissimo Roberto Bettega, prima di lasciare la società bianconera nel 1974, restandone comunque tifoso e collaboratore.

E’ una storia d’amore che appassiona e sfiorisce in un anno preciso: 1994. La Juventus, dopo il periodo aureo con Platini, Scirea e Trapattoni non entusiasma più i suoi tifosi. Cambiano i tecnici e rimane inalterato il sapore dell’insuccesso. Perciò la famiglia Agnelli affida il compito di rifondazione ad una triade che non ha nulla da spartire con il trio cattolico composto dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo: Moggi, Giraudo e Bettega. I tre loschi personaggi sono impazienti, hanno fretta di vincere ed esultare. Rompono radicalmente con il passato e licenziano Cesto. L’ex tecnico bianconero si sente offeso e tale sensazione accompagna pure suo nipote, talmente legato a quei colori da non staccarsene più, anche oggi che è considerato l’eccellente nemico della Juventus.

L’uomo in questione è Zdenek Zeman, il tecnico ansioso di far divertire (sostanzialmente se ne frega se le sue difese subiscono troppi gol, fondamentale è farne uno o due più degli altri) che con il 4-3-3, i movimenti rapidi senza palla e la preparazione atletica forsennata ha sedotto Foggia e Pescara ; l’hombre vertical che non teme di denunciare le malattie del calcio, anche a costo di accusare il suo vecchio amore.
Per prima cosa, nel 1998, fece esplodere lo scandalo doping: “Le esplosioni muscolari? E’ uno sbalordimento che comincia con Vialli e arriva a Del Piero. E’ sempre più difficile resistere alla tentazione della pillolina magica. Il mondo del calcio è dominato dalla finanza e dalle farmacie“.

Fu querelato e definito un terrorista. La Juventus, assieme al dottor Agricola, fu processata. Il processo dei “non ricordo” pronunciati dalla difesa dinanzi alla Corte e all’accusatore Guariniello conobbe la prescrizione (che non è assoluzione, il tempo era scaduto e la giustizia non conosce supplementari), anche se venne provata l’illecita somministrazione di farmaci (tranne l’epo) ai calciatori bianconeri.
Zeman, insoddisfatto del lavoro della giustizia, proseguì la sua battaglia per un calcio pulito. Schietto e diretto, con quella espressione da duro che raramente mostrava un sorriso. Allenò il Lecce in serie B e nella stagione 2006/2007 trovò tra i suoi avversari la Juventus, appena retrocessa per lo scandalo Calciopoli e disse: “A mio giudizio le sentenze della giustizia sportiva non sono state adeguate a quello che è successo, a uno scandalo che era stato descritto come il più grave del calcio mondiale“.

I media amano Zeman e da lui sono detestati. Per alcune tifoserie è uno dei pochi simboli rimasti di un calcio sano. In un mondo omertoso come quello del calcio, la sua personalità è necessaria. Magari ci fossero più tecnici, più calciatori e più Presidenti indignati. Professionalmente va elogiato per come è capace di entusiasmare le piccole realtà, di valorizzare i giovani che hanno talento nelle città in cui è possibile lavorare con calma e umiltà. La sua idea di trionfo dell’estetica e della moralità calcistiche ( “la gente va a vedere le partite per divertirsi”) sono utopie.
Gli Italiani sono pigri e non agiscono per migliorare un sistema calcio infetto, al tempo stesso le squadre non hanno così brama di coltivare i propri vivai e di giocare bene. Conta vincere, non come si arriva alla vittoria.
Zeman ha vinto meno di Capello, Lippi, Mourinho, Carrera e non ne avverte il dramma. Se dovesse diventare un uomo di successo morirebbe il suo mito.

Se oggi fosse la fine del mondo, ecco i migliori sportivi di sempre

Per gli antichi Maya il 21 Dicembre 2012 rappresentava la fine del mondo. Per noi adesso è solo un giorno come tanti, in cui se guardiamo indietro nel tempo ci vengono in mente tanti storici avvenimenti. Nella storia dell’uomo c’è spazio anche per lo sport che con i suoi straordinari atleti ha appassionato intere generazioni. Come non ricordare, nel calcio, fenomeni come Maradona e Pelè. Campioni capaci di vincere tre volte il pallone d’oro come Platini e Van Basten o vincitori di 5 coppe dei campioni come Di Stefano. Portieri insuperabili come Yashin, Bancks e Buffon. Difensori dalla classe sublime come Beckenbauer e Passarella. Bomber infallibili come Muller e Cruyff. Bandiere esemplari come Maldini, Del Piero, Totti, Raul e Javier Zanetti. Fino ai miti dell’ultimo decennio: Ronaldo, Ronaldinho, Kakà, Cristiano Ronaldo e Messi. Ma nello sport ci sono tante altre discipline, non solo il calcio. L’umanità così ha visto negli ultimi cento anni, una varietà di leggende.

Ci sono stati uomini capaci di nuotare forte come squali in caccia di preda. Tra questi i più celebri Phelps, Popov e Van den Hoogenband. Piloti veloci come fulmini sulle piste di tutto il mondo: Senna, M.Schumacher, Ascari, Fangio, Prost, Pique, Mansell nella F1; Agostini, Nieto e Valentino Rossi nel motociclismo. Altri abili a correre con le proprie gambe sotto il muro dei 10 secondi nei 100 metri: tra i più importanti Lewis e Bolt. Altri ancora capaci di rendere magica la neve con i loro sci. Tra questi ricordiamo Thoeni, Stenmark, Tomba e Maier. Nel ciclismo come non elogiare le imprese di Bartali, Coppi, Mercx, Indurain, Pantani e Armstrong tra Giro d’Italia e Tour de France. Nella boxe il mito di Mohammad Ali e i pugni di Primo Carnera e Mike Tyson.

Nel basket memorabili le schiacciate di Jordan e Bryant, i 100 punti in una partita di Chamberlain e le sfide epiche tra Magic Johnson e Larry Bird. Nel Tennis, oltre a Federer, Djokovic e Nadal, restano indimenticabili Bjorg, McEnroe, Agassi, Sampras, Becker, Connors, Pietrangeli e Rosewall. Straordinarie nel Volley le schiacciate di pallavolisti dal braccio bionico: Bernardi, Kiraly, Conte, Giba e Despaigne. Sicuramente tanti altri meriterebbero onore e gloria, ma questi a detta di molti i migliori di sempre. Quella dei Maya è destinata a rimanere una leggenda come tante. Le leggende dello sport vivranno in eterno nel cuore degli appassionati. Lunga vita allo sport!

Francesco Spezzano

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Roberto Di Matteo: La Dea si innamora di un mortale

“Chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento” percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde” Match Point, film statunitense del 2005 di Woody Allen.

La fortuna ci corregge di parecchi difetti, di cui non saprebbe correggerci la ragione.
(François de La Rochefoucauld)

Inizia tutto durante una serata di coppa, la Dea guarda negli occhi un Italiano e se ne innamora al primo sguardo, era in un giorno di Febbraio del 2012 quando, da vice allenatore del Chelsea, la squadra allenata da André Villas-Boas viene strapazzata al San Paolo di Napoli per 3-1, sotto i colpi di Cavani e Lavezzi. Stanco dei risultati altalenanti dello Special Two, Abramovič, che riceve la Dea in sogno, chiama Roberto a sostituire il Portoghese sulla panchina dei Blues. Più si guardano e più si innamorano, la Dea e il mortale. Al ritorno i blues guidati da Roberto, che sistema la difesa e punta sulla vecchia guardia (Drogba su tutti) fanno l’impresa e ribaltano, durante i supplementari, con una grande partita, il risultato dell’andata vincendo per 4-1 contro i partenopei. Al turno successivo Roberto ha ancora il Portogallo nel destino, e l’urna gli riserva il Benfica. Il Chelsea gioca bene e merita, ma la Dea ancora una volta bussa alla sua porta e va a dirgli, che in caso di necessità, lei non lascia solo a quel mortale che ha nel cuore, negando al Benfica un rigore grosso come il tempio di Atena Nike ( http://www.youtube.com/watch?v=zAUNfkD0PeU) ed il Chelsea anche stavolta passa (1-0/ 1-2) Non stanca, non paga, la Dea si presenta in semifinale con un abito bellissimo, con le mani piene di doni e con la scintilla dell’amore che brilla nei suoi occhi (http://www.youtube.com/watch?v=RN380Ft8Z2s) e il Blues battono all’andata l’incredibile e strafavorito Barcellona di Messi per 1-0, con gol di un super Drogba. Gli spagnoli colgono la traversa con Sanchez e un palo con Pedro nel finale, buttano al vento circa 10 occasioni limpide per pareggiare. Sprecano e imprecano contro la Dea, che per amore non li ascolta.

Al ritorno il Camp Nou è una bolgia, il Barça è pronto a dimostrare che la Dea nella vita conta meno della bravura, del talento e dell’impegno, ma la Dea non ci sta neanche stavolta, e ricorda a tutti chi comanda e che lei fa tutto questo solo per amore: (http://www.youtube.com/watch?v=aP9WSUbHtsc) Gli spagnoli vanno subito avanti con Busquets, viene espulso Terry e gli occhi ed il cuore dei Catalani brillano di gioia. Gli inglesi rimangono in 10, raddoppia Iniesta, gara chiusa? Neanche per sogno, la dea innamorata si avvicina e bacia anche stavolta Roberto sempre per amore, sempre seduto su quella panchina. Finisce 2-2, Messi che sbaglia un rigore sul 2-1 centrando la traversa. Anche un Dio del calcio come Messi, si deve inchinare davanti alla Dea innamorata; pareggia infine al 91′ Fernando Torres (subentrato ad uno straordinario Drogba), su un lancio fatto alla cieca e con un precedente tocco di mano non ravvisato dall’arbitro, da parte di un difensore inglese in area di rigore, prima del lancio cieco come la Dea che finisce nei piedi dell’attaccante.

Anche stavolta Roberto ce la fa, ed arriva in finale contro i tedeschi del Bayern Monaco, super favoriti, che giocano la finale in casa. A 8 minuti dalla fine, dopo decine di occasioni sbagliate, i tedeschi segnano con Muller, in uno stadio tutto tedesco già pronto per la festa. La gente mormora: “E la Dea si è dimenticata del suo amore?” Ma l’amore non era finito, la Dea arriva e decide che Roberto merita amore ed un altro bacio (http://www.youtube.com/watch?v=9rI1TwOiluE). Arriva il pareggio di Drogba a due minuti dalla fine, e gli inglesi vincono incredibilmente ed inaspettatamente ai rigori, i tedeschi crollano psicologicamente e sbagliano gli ultimi due tiri della serie con Olić e Schweinsteiger dopo essere stati in vantaggio, (grazie all’errore iniziale di Mata) e Roberto all’improvvisosi ritrova re d’Europa, la vita non gli è mai sembrata così bella. Ma ogni Dea è particolare, ed ha una debolezza, la Dea è capricciosa, così come arriva scompare, va via e ti lascia solo. Dalle vette su cui ti ha portato ti trascina negli abissi. Ti volta le spalle senza un motivo e senza che tu le abbia fatto uno sgarbo, ti volta le spalle e scompare senza darti spiegazioni. La Dea ora ha un nuovo amore e Roberto rimane solo, su quella panchina. Finisce tutto lì dove era iniziato, in una notte di coppa, allo Juventus Stadium, il Chelsea di Roberto perde 3-0, viene annientano nel gioco e nel risultato, ed è quasi fuori dalla Champions da campione uscente (sarebbe la prima volta nella storia della competizione nei gironi di qualificazione), ma i primi due gol della Juve arrivano su deviazione determinante. Senza la Dea Roberto non è più lo stesso uomo, come chiunque quando perde l’amore. La Dea lo guarda da lontano e a testa bassa gli dice piangendo gli dice:” Robe’, è finita. Non ti amo più”. Finisce così la favola di un amore che si è spento, come tutte le cose fragili e belle, con un soffio di vento, come la fiamma di una candela al vento.

Francesco Mollo

Miracolo Fiorentina, dalla salvezza alla lotta Champions

Quando la Fiorentina si presentò allo stadio Via del Mare per blindare la salvezza contro un Lecce disperato e all’arma bianca, era la penultima giornata. Giocarono Olivera accanto a Cerci in attacco, Felipe in difesa e Marchionni centrale di centrocampo. Nessuno pretese da loro tocchi di prima, scambi in velocità, fraseggi nello stretto, ripartenze palla a terra. L’unico obiettivo era infilare quel maledetto gol e proteggerlo fino al novantesimo. Poi sarebbero potuti tornare sotto l’ombra patria del Giglio, là dove nessuno li aspettava, dove nessuno li avrebbe abbracciati e festeggiati. Firenze li odiava.

Sentimento reciproco, ma nessuno se ne stupì: in un mondo dove anche l’ultima bandiera (Del Piero) veniva costretta all’esilio da logiche manageriali discutibili, credere che fra società, squadra e città potesse sbocciare qualcosa di bellissimo e immortale sarebbe stato da pazzi. Non con tutti quei soldi in circolazione. Non coi veleni della classe giornalistica. Eppure qualcosa cambiò. Andrea Della Valle promise la rivoluzione e per primi ingaggiò Pradè (coadiuvato dal silenzioso ma preparatissimo Macia) e Montella.

La novità non fu nel fatto che sostituirono i vecchi e rancorosi giocatori con una rosa di tutto rispetto, e nemmeno nel miracolo dell’aver preso Borja Valero, Pizarro e Aquilani per una miseria. La vera novità fu che tutti questi giocatori vennero a Firenze con uno scopo comune. E i risultati si vedono tuttora: dopo 13 giornate, la Fiorentina è terza in classifica, a pari punti con quel Napoli che lotta per il tricolore. Gioca il miglior calcio d’Italia e un’armonia all’interno dello spogliatoio che non si vedeva da anni. Forse dai tempi di Batistuta. Quando miracolo si legge rivoluzione e viceversa. Tutto il resto è retorica.

Alberto Remolo