Praga 1968. Il maligno impero sovietico invade la Cecoslovacchia, costringendo tante persone a fuggire. Tra queste c’è la faccia ruvida di un bambino che raggiungerà suo zio Cesto a Palermo, lasciandosi coinvolgere dalla passione per il calcio e laureandosi all’ISEF. Lo zio Cesto vive in Italia dal secondo dopoguerra. Ha allenato la Juventus del Presidente Boniperti e vinto due scudetti. Fu anche suo il merito di aver creduto nel valore del giovanissimo Roberto Bettega, prima di lasciare la società bianconera nel 1974, restandone comunque tifoso e collaboratore.

E’ una storia d’amore che appassiona e sfiorisce in un anno preciso: 1994. La Juventus, dopo il periodo aureo con Platini, Scirea e Trapattoni non entusiasma più i suoi tifosi. Cambiano i tecnici e rimane inalterato il sapore dell’insuccesso. Perciò la famiglia Agnelli affida il compito di rifondazione ad una triade che non ha nulla da spartire con il trio cattolico composto dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo: Moggi, Giraudo e Bettega. I tre loschi personaggi sono impazienti, hanno fretta di vincere ed esultare. Rompono radicalmente con il passato e licenziano Cesto. L’ex tecnico bianconero si sente offeso e tale sensazione accompagna pure suo nipote, talmente legato a quei colori da non staccarsene più, anche oggi che è considerato l’eccellente nemico della Juventus.

L’uomo in questione è Zdenek Zeman, il tecnico ansioso di far divertire (sostanzialmente se ne frega se le sue difese subiscono troppi gol, fondamentale è farne uno o due più degli altri) che con il 4-3-3, i movimenti rapidi senza palla e la preparazione atletica forsennata ha sedotto Foggia e Pescara ; l’hombre vertical che non teme di denunciare le malattie del calcio, anche a costo di accusare il suo vecchio amore.
Per prima cosa, nel 1998, fece esplodere lo scandalo doping: “Le esplosioni muscolari? E’ uno sbalordimento che comincia con Vialli e arriva a Del Piero. E’ sempre più difficile resistere alla tentazione della pillolina magica. Il mondo del calcio è dominato dalla finanza e dalle farmacie“.

Fu querelato e definito un terrorista. La Juventus, assieme al dottor Agricola, fu processata. Il processo dei “non ricordo” pronunciati dalla difesa dinanzi alla Corte e all’accusatore Guariniello conobbe la prescrizione (che non è assoluzione, il tempo era scaduto e la giustizia non conosce supplementari), anche se venne provata l’illecita somministrazione di farmaci (tranne l’epo) ai calciatori bianconeri.
Zeman, insoddisfatto del lavoro della giustizia, proseguì la sua battaglia per un calcio pulito. Schietto e diretto, con quella espressione da duro che raramente mostrava un sorriso. Allenò il Lecce in serie B e nella stagione 2006/2007 trovò tra i suoi avversari la Juventus, appena retrocessa per lo scandalo Calciopoli e disse: “A mio giudizio le sentenze della giustizia sportiva non sono state adeguate a quello che è successo, a uno scandalo che era stato descritto come il più grave del calcio mondiale“.

I media amano Zeman e da lui sono detestati. Per alcune tifoserie è uno dei pochi simboli rimasti di un calcio sano. In un mondo omertoso come quello del calcio, la sua personalità è necessaria. Magari ci fossero più tecnici, più calciatori e più Presidenti indignati. Professionalmente va elogiato per come è capace di entusiasmare le piccole realtà, di valorizzare i giovani che hanno talento nelle città in cui è possibile lavorare con calma e umiltà. La sua idea di trionfo dell’estetica e della moralità calcistiche ( “la gente va a vedere le partite per divertirsi”) sono utopie.
Gli Italiani sono pigri e non agiscono per migliorare un sistema calcio infetto, al tempo stesso le squadre non hanno così brama di coltivare i propri vivai e di giocare bene. Conta vincere, non come si arriva alla vittoria.
Zeman ha vinto meno di Capello, Lippi, Mourinho, Carrera e non ne avverte il dramma. Se dovesse diventare un uomo di successo morirebbe il suo mito.

 

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